Ci risiamo, cari lettori!
L’ ennesimo capitolo della tormentata storia del rito
amministrativo, viene riscritto da una delle penne più
fluide e significative nella cattura dell’ in fieri
della giustiziabilità dei pubblici poteri. Tra i temi
più profondamente visitati viene ancora alla luce, senza
alcuna pretesa di esaustività, la telenovela della
pregiudiziale amministrativa con i suoi assilli pratici,
al centro di un dibattito vibrante che appare ancora
lontano dal sopirsi.
Oggetto di duello rusticano tra Cassazione e Consiglio
di Stato, in relazione al quale le luci soffuse del
caffè Greco di fine anni 20 appaiono stranamente
sbiadite, quasi mitologiche (riecheggia ancora il rumore
del primo relativo articolo: “non ci sono né docenti né
studenti, tutti sono autodidatti”).
L’ occasione della nuova magistrale sceneggiatura trae
origine dalla sottoposizione, da parte della sezione VI
del C.S., al vaglio dell’Adunanza Plenaria, di una
questione relativa ai rapporti tra domanda di
annullamento e domanda di risarcimento, con riguardo ad
una fattispecie nella quale viene chiesto il ristoro dei
danni derivati da un provvedimento di sospensione dalle
gare, non impugnato nel termine decadenziale. E adesso
cerchiamo di aprire insieme il sipario!
L’
Adunanza Plenaria nel confezionare e impreziosire il
proprio decisum, strizza l’ occhio alle folate pretorie
che hanno attraversato la vexata questio, annodando il
filo rosso del proprio percorso nella ratio di cui all’
art. 30 del Codice del processo amministrativo e
nell’art. 1227, comma 2, cod. civ.(al riguardo, quanto
ai profili definitori, per un perfetto gioco di squadra,
si rinvia alla correlativa voce spiegata in seno a
Cendon&Partners). Così, con una mossa (apparentemente)
spiazzante, che sembra tagliare diagonalmente il campo
della effettività della tutela giurisdizionale nei
confronti della P.A., si sottolinea che, pur essendo
venuta meno la teoria della pregiudiziale
amministrativa, la domanda di risarcimento avanzata
senza chiedere tempestivamente l’annullamento dell’atto
amministrativo, va ritenuta infondata ove il
comportamento del ricorrente non abbia evitato la
consolidazione degli effetti dannosi.
Preliminarmente, nell’ apparecchiare il banchetto, i
giudici di Palazzo Spada, emancipando, ancora una volta,
la categoria dell’ interesse legittimo dall’ inchino
ancillare, occasionalmente protetto, ne rinforzano la
dignità sostanziale, sagomata in modo intimo e
inscindibile, ad un interesse materiale del titolare ad
un bene della vita. La sua seria lesione può originare
un pregiudizio cui non resta insensibile l’ ordinamento
esistenzialista, che riscopre la centralità della
persona in quanto tale, non solo nell’ alveo del diritto
comune, ma anche nella dinamica della “formazione
sociale” amministrativa.
Pertanto, tirando le fila da buon esegeta, il Consesso,
nel crescente appetito di utilità del cittadino che
fronteggia il potere, ridisegna l’interesse legittimo
come posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in
relazione ad un bene della vita interessato
dall’esercizio della funzione pubblicistica. Lo stesso
viene a condensarsi nell’ attribuzione a tale soggetto
di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio
della citata funzione: la p.a. non corre più da sola nel
delirio autoritativo, ma partecipa delle legittime
aspettative ed esigenze private, la cui compresenza
veste di democrazia effettiva l’ agere pubblico.
Ecco, quindi, che si approda alla cristallizzazione, in
senso al Codice del processo amministrativo, di
copernicane svolte pretorie. Anche nei riguardi della
situazione di interesse legittimo, l’ ordinamento, sulla
base di scelte costituzionalmente orientate confluite
nel disegno codicistico, predica forme di protezione non
più limitate a demolire il provvedimento ma miranti, ove
possibile, alla soddisfazione completa della pretesa
sostanziale (è ormai un rumore lontano, quell’
affermazione di Stanislao Mancini, durante i lavori
preparatori della LAC, che a fronte dell’ ingiustificato
sacrificio della posizione del privato a fronte della
supremazia della PA, esclamò “che vi si rassegni!”).
Il D.Lgs. 104/2010, in ossequio alla effettività e
concentrazione delle forme di difesa in giudizio,
sensibili all’ unità di intenti del cittadino che ha
ragione, ha ripudiato la tradizionale limitazione della
tutela dell’interesse legittimo al solo modello
impugnatorio, ammettendo l’esperibilità di azioni tese
al conseguimento di pronunce dichiarative, costitutive e
di condanna idonee a soddisfare l’ appetito sostanziale
e non meramente formale, della parte che decide di
attraversare le nebulose del processo.
Si sono, infatti, aggiunte alla tutela di annullamento
la tutela di condanna (risarcitoria e reintegratoria ex
art. 30), la tutela dichiarativa (cfr. l’azione di
nullità del provvedimento amministrativo ex art. 31,
comma 4) e, nel rito in materia di
silenzio-inadempimento, l’azione di condanna
pubblicistica (cd. azione di esatto adempimento)
all’adozione del provvedimento, anche previo
accertamento, nei casi consentiti, della fondatezza
della pretesa dedotta in giudizio (art. 31, commi da 1 a
3).
E allora, con buona pace dei fedeli delle vecchie
liturgie, ancora chiusi nelle stanze in cui pare non
circoli l’ aria del mondo giuridico, il rito
amministrativo cambia lentamente pelle, attraendo nelle
sue esplorazioni conoscitive non solo la legittimità
esterna del provvedimento, ma anche la fondatezza della
pretesa sostanziale che si inscrive nel rapporto tra
cittadini e soggetti pubblici, specie in settori
vincolati e privi di margini di discrezionalità,
gelosamente custodite dal monarca burocrate.
Nondimeno la delineata metamorfosi non può dirsi affatto
compiuta: a tanto conduce del resto la soluzione (dal
vago sapore di compromesso) approntata dal nuovo codice
nella telenovela della pregiudiziale amministrativa. Ivi
il legislatore - artt. 30 e ss. -, ha mostrato di non
condividere la tesi della pregiudizialità pura di stampo
processuale al pari di quella della totale autonomia dei
due rimedi (impugnatorio, teso alla caducazione dell’
atto amministrativo, e risarcitorio), approdando ad una
soluzione che, non considerando l’omessa impugnazione
quale sbarramento di rito, valuta detta condotta come
fatto concreto da apprezzare, nel quadro del
comportamento complessivo delle parti, per escludere il
risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso
volto all’annullamento.
In altri termini, a mente dell’ approccio esegetico
spiegato nell’ occorso dall’ Ad. Plen., la mancata
promozione della domanda impugnatoria, quindi, non pone
un problema di ammissibilità dell’actio damni ma è
idonea ad incidere sulla fondatezza della domanda
risarcitoria.
L’ art. 30, comma 3, del CPA, nel prevedere che nel
determinare il risarcimento, “il giudice valuta tutte le
circostanze di fatto e il comportamento complessivo
delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei
danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria
diligenza, anche attraverso l’esperimento degli
strumenti di tutela previsti”, pur non evocando in modo
esplicito il traghettamento dell’art. 1227, comma 2, del
codice civile, afferma che l’omessa attivazione degli
strumenti di tutela previsti costituisce, nel quadro del
comportamento complessivo delle parti, elemento
valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del
principio di solidarietà, ai fini dell’esclusione o
della mitigazione del danno evitabile con l’ordinaria
diligenza.
Di qui la rilevanza, sul versante prettamente causale,
dell’omessa o tardiva impugnazione come fatto che
preclude la risarcibilità di danni che sarebbero stati
presumibilmente evitati in caso di rituale utilizzazione
dello strumento di tutela specifica predisposto
dall’ordinamento a protezione delle posizioni di
interesse legittimo onde evitare la consolidazione di
effetti dannosi
Riepilogando (spero di non ingarbugliarvi cari lettori
in una nuova Beautiful), per dirla con i giudici di
Palazzo Spada, dall’esame coordinato delle disposizioni
de quibus si evince che il legislatore, se da un lato
non ha recepito il modello della pregiudizialità
processuale della domanda di annullamento rispetto a
quella risarcitoria, dall’altro ha mostrato di
apprezzare la rilevanza causale dell’omessa impugnazione
tempestiva che abbia consentito l’ irrobustirsi
dell’atto e dei suoi effetti dannosi.
Vengono così scolpite, senza tentare spericolate
acrobazie giurisprudenziali, le seguenti conclusioni al
lume delle esportazioni civilistiche: la totale inerzia
osservata dall’appellante, nella coltivazione di rimedi
giudiziali e di iniziative stragiudiziali, lungo tutto
l’arco temporale nel corso del quale l’atto ha spiegato
il suo effetto inibitorio, integra, alla luce della
gravità degli effetti lesivi denunciati, una chiara
violazione degli obblighi cooperativi che gravano sul
creditore danneggiato.
A ben vedere, sembra come, tra pimpanti candidature
rivoluzionarie, nello scrutinio dei pubblici poteri,
resista ancora l’ italica pregiudiziale amministrativa
che, sia pure sfrondata dei suoi anacronismi rispetto
alla sostanza del bene della vita agitato sotto il naso
del G:A., richiede ancora, prima del ristoro dei
pregiudizi lamentati dal privato, l’ ancoraggio all’
illiceità della condotta del soggetto pubblico, da
contestare in tempi ragionevolmente brevi, alla luce
della esigenza di certezza dei rapporti giuridici. In
altri termini, la tutela che adesso si auspica piena nei
confronti del cittadino inciso dai poteri della p.a.,
passa prima da una pronta e tempestiva contestazione, in
sede giudiziale o extragiudiziale, dell’ operato dell’
amministrazione, senza la quale viene reciso il valore
genetico della pretesa risarcitoria.
Verrebbe da consigliare (scusate il timido azzardo!) di
aggredire in tempo il provvedimento, o il silenzio delle
nostre iniziative di impugnazione, taciterà anche i
danni patiti dal cattivo uso del potere: “contesto,
quindi esisto nella mia piena tutela”.
E allora, la pregiudiziale de qua, con aria sornione,
forse canticchia, fra le pregnanti esigenze di tutela e
le correlative ospitalità processuali, “sembrava la fine
del mondo, ma sono ancora qua! Eh già!” (Vasco docet).
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