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LICENZIAMENTO DISCRIMINATORIO DEL DIRIGENTE-Manuela Rinaldi-Diritto e processo.it

 

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Avvocato, Direttore amministrativo Fondazione studi giuridici “Buccini – Cassinelli” – Docente a contratto diritto del lavoro Univ. Teramo, sede dist. Avezzano

(Estratto da Diritto e Processo formazione n. 3/2011)

 

 

QUESTIO IURIS

Il nostro ordinamento giuridico italiano presenta due disposizioni fondamentali in materia di licenziamento discriminatorio: l'art. 4 della legge n. 604/66 e l'art. 3 della legge n. 108/90.

L’art. 4 della legge n. 604 del 1966 (la legge 604/1966 è stata di recente, come noto, modificata dalla legge 183/2010, il c.d. Collegato Lavoro, per quanto concerne, tra le altre cose, i termini di decadenza della impugnativa del licenziamento e il campo di applicazione) sancisce la nullità del licenziamento discriminatorio e dispone: “Il licenziamento determinato da ragioni di credo politico o fede religiosa, dall’appartenenza a un sindacato e dalla partecipazione ad attività sindacale è nullo, indipendentemente dalla motivazione adottata”. Il contenuto prescrittivo dell’art. 4 è stato ampliato dall'art. 15 St. Lavoratori, il quale dispone la nullità di qualsiasi atto o patto diretto a “licenziare un lavoratore (…) a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero”, nonché la nullità dei licenziamenti attuati “a fini discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua e di sesso”.

L'art. 3 della legge n. 108/90, invece, disciplina le conseguenze in caso di licenziamento discriminatorio e prevede l'applicazione della tutela reale disciplinata dall'art. 18 Statuto dei Lavoratori indipendentemente dal numero dei dipendenti dell'organizzazione datoriale; infatti, dispone: “ Il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie ai sensi dell’art. 4 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e dell’art. 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dall’art. 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze previste dall’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificato dalla presente legge. Tali disposizioni si applicano anche ai dirigenti”.

Le ragioni discriminatorie  contemplate dalla legge si suddividono in due settori: il primo concerne la tutela della libertà e dell’attività sindacale, il secondo la tutela di altri diritti fondamentali, più accentuatamente individuali ed inerenti alla persona del lavoratore, ai quali fa riferimento il secondo comma dell’art. 15 St. Lavoratori.

La nozione di discriminazione trova, inoltre, riscontro nella legge 6 marzo 1998, n. 40, secondo l’art. 41, infatti costituisce discriminazione “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione o, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza e l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.

Ancora da citare è il d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216 relativo all’attuazione della direttiva 2000/78 CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro.

L’art. 1 del d.lgs. 9 luglio 2003, n° 216, nel ribadire il principio di parita’ di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, prevede l’azione di misure necessarie affinchè tali fattori non siano causa di discriminazione, ma in un’ ottica che tenga conto del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini.

Le disposizioni contenute nell’art. 2 del d.lgs. 216/2003 relative alla nozione di discriminazione diretta ed indiretta, oltre ad essere il frutto dell’elaborazione giurisprudenziale Comunitaria che si è succeduta nel corso degli anni, riprendono le definizioni contenute nel rispettivo art. 2 della direttiva 2000/78 CE.

Per il legislatore comunitario costituisce discriminazione diretta ogni atto o comportamento, attivo od omissivo, diretto a pregiudicare coscientemente un soggetto in ragione della sua appartenenza ad un gruppo determinato: l’illegittimità del comportamento è in questo caso rinvenibile nella motivazione posta a base del trattamento in pejus ed è quindi agevolmente definibile e verificabile.

Costituiscono invece ipotesi di discriminazione indiretta le condotte e i comportamenti adottati in base all’applicazione di criteri che, sebbene formalmente neutri, si rilevano idonei a produrre effetti proporzionalmente sfavorevoli a danno della collettività o dei gruppi tutelati dalla norma antidiscriminatoria. In altre parole, tali criteri, astrattamente imparziali, di fatto provocano un disparate impact su una collettività effettiva o potenziale di lavoratori e devono considerarsi illegittimi a meno che non siano giustificati da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi causa di giustificazione.

 

LA SOLUZIONE di Cassazione civ. sez. lav. 16 febbraio 2011, n. 3821

Con la sentenza in oggetto i giudici di legittimità hanno precisato che non si può considerare discriminatorio il licenziamento di un dirigente che abbia consentito ad una associazione religiosa di somministrare ai dipendenti test attitudinali, di carattere invasivo.

Secondo i giudici di legittimità, il dato dell'appartenenza della associazione che aveva approntato i test somministrati a un particolare orientamento etico religioso risulta preso in considerazione nella misura in cui lo stesso si era riverberato negativamente nel contesto aziendale, suscitando l'indagine conoscitiva condotta da tale società reazioni tra i dipendenti, turbati per il carattere invasivo dei test nei riguardi della loro vita privata e per il condizionamento negativo derivatone; ed invero, la condotta sanzionata, ossia il monitoraggio posto in essere senza la necessaria preventiva informazione del Consiglio di Amministrazione ed in violazione delle linee operative dell'azienda è stato correttamente ritenuto dalla Corte di merito, con motivazione incensurabile, oltre che un dato oggettivamente provato, ragione di per sé suscettibile di essere valutata in termini di rilevanza disciplinare che di certo non dissimula un intento discriminatorio del provvedimento espulsivo, pienamente giustificato dalla negligenza posta in essere dal dirigente G. V..

Tale valutazione è stata operata a prescindere da ogni supposta adesione del dirigente a un orientamento religioso, ma attribuendo rilievo all'incauto affidamento a società facente capo ad associazione di orientamento etico religioso discutibile di un'attività aziendale delicata, quale quella attinente alla comunicazione endoaziendale, senza che da ciò possa in alcun modo inferirsi un contegno anche indirettamente discriminatorio.

In tema di divieto di trattamenti discriminatori giustificati da ragioni di appartenenza ad un particolare credo ideologico e religioso ex artt. 2 e 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, i giudici della Corte hanno precisato che rileva unicamente  l'effetto pregiudizievole che discende da atti e comportamenti che - prescindendo dalla motivazione addotta, come anche dall'intenzione di chi li adotta - pongano il destinatario in una situazione di svantaggio rispetto a quanti siano estranei ai fattori di rischio vietato, e che non costituisce violazione delle norme suddette il licenziamento disciplinare per "culpa in vigilando", disposto dal datore di lavoro nei confronti di dirigente che abbia incautamente autorizzato un'associazione religiosa (di cui lo stesso faccia parte) a somministrare ai dipendenti un test attitudinale invasivo nei riguardi della loro vita privata, non essendovi alla base del recesso l'orientamento etico religioso dell'associazione di appartenenza, ma solo i riflessi negativi della vicenda sul contesto aziendale e sulla serenità dei dipendenti.

 

APPROFONDIMENTO

Nicolini G. - Manuale di diritto del lavoro. III ed. Milano, Giuffrè, 2000, p. 562

Amoroso G. - Il licenziamento del dirigente d’azienda dopo la legge n. 108 del 1990. Diritto e lavoro 1991, I, p. 151

 

 

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